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Vacirca e il 'suo' Kobe Bryant: "Simbolo di chi cambia vita a 40 anni senza paura"

27 Gennaio 2020

L'ex direttore generale della Sutor, oggi uomo marketing dell'azienda Fabi, affronta il lato umano del campione, il suo essersi rimesso in gioco.

FERMO – Si può raccontare in tanti modi Kobe Bryant (leggi LA TRAGEDIA). Per chi ha passato metà della sua vita nel basket sarebbe facile parlare dei successi, dei canestri, dei record. Ma Gianmaria Vacirca, ex direttore generale della Sutor in serie A1, oggi consulente di mercato a Cremona, da anni ha cambiato strada, è un esperto di marketing nel mondo del fashion, e dedica al basket il tempo necessario che si deve a una passione, senza più rimbalzare ogni istante come una palla impazzita.

Ed è quello che aveva deciso di fare Kobe Bryant: “Un uomo di 40anni che viveva per la famiglia e trasmetteva l’amore per la famiglia. Tutto il suo Instagram è dedicato a lui con le figlie e la moglie. Quattro ragazze, con la sola Gianna, precipitata con lui nell’elicottero, veramente interessata al basket”.

Ecco chi era Kobe Bryant oggi: “Un uomo che salutavamo con i 60 punti dell’ultimo match e poco tempo dopo festeggiavamo per l’Oscar al cortometraggio dedicato alla sua lettera di addio al basket. Kobe Bryant stava già vivendo il suo secondo tempo. Era pronto per vivere un’altra vita e fare altro”.

Del resto Bryant era l’uomo delle sfide: “Un creativo, imprenditore visionario, grande motivatore, impegnato nel sociale, penso ai progetti per i senzatetto a Los Angeles. Da ieri penso molto a questo lato di Bryant, il lato tragico di una vita incredibile nel suo primo tempo, piena di successi, che ora stava cambiando e crescendo, ma che è stata chiusa in modo crudele. Con la figlia e tutta la famiglia della sua amica”.

Quello che è successo a Bryant potrebbe accadere in realtà a ognuno di noi: “Ti fa pensare a quando a 40 anni cambi tutto nella tua vita. Ognuno di noi cambia. E Bryant che aveva avuto il beneficio di entrare nella mitologia da giocatore non si voleva fermare. Lui che arrivò ai Lakers 17enne e, come ricorda Jerry West, perfino senza patente. Lui che poteva dire ‘nella mia vita precedente ho fatto’, ma ora stava vivendo qualcosa di diverso. Il basket era la figlia, il resto era un uomo pieno di talento e creatività che avrebbe fatto parlare di sé e ispirato non più solo i giocatori, ma tutti, dall’impresa al cinema. Lui era già un mito, ma ha perso il secondo tempo, quando la voglia di vivere aumenta ancora di più perché hai tante cose da fare e non più quella che ti ha riempito il primo tempo” prosegue Vacirca.

“Questo vale per lui e per tutti i Kobe Bryant che non consociamo, che escono per portare la figlia all’allenamento e poi non tornano. That’s life: che ti dà tanto e ti toglie tutto con un click. Il secondo tempo di ognuno di noi, che non è mai facile costruirsi ma che lui aveva impostato partendo da un Oscar”.

Raffaele Vitali

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