di Chiara Fermani
Ci siamo quasi. Domenica e lunedì nelle Marche si voterà per rinnovare consiglio regionale e presidente, ma a guardare la campagna elettorale sembra di assistere a un format televisivo più che a un confronto politico.
Non servono più comizi infuocati, sezioni di partito o dibattiti sui programmi: oggi la sfida si gioca tutta tra reels ben montati, stories ad effetto e cuoricini a raffica su Instagram.
La politica si è trasferita, ormai da un po’, nei feed dei social, dove ogni candidato è costretto a indossare la maschera dell’influencer. I più giovani lo fanno con disinvoltura, maneggiando tagli di montaggio e musiche virali. I più anziani arrancano, e senza un social media manager al seguito rischiano di scomparire nel buio dell’algoritmo. L’elettore, nel frattempo, scorre distrattamente: non legge un programma, ma guarda chi ha il contenuto più brillante, chi strappa un sorriso, chi si mostra più vicino al linguaggio dei ventenni.
Gli eventi finali di campagna non sono da meno: comici sul palco, cantanti, panini con la porchetta. Più che un momento di riflessione, sembrano una puntata speciale di un talent show, con la folla pronta ad applaudire non l’idea ma l’ospite d’eccezione. Si vota chi porta il VIP migliore, non chi ha la visione più solida per il futuro della regione.
Sui social intanto regna il far west. Tra commenti e insulti, non c’è spazio per il dialogo costruttivo. Coperti da uno schermo, tutti dicono tutto, senza filtri, senza responsabilità. Il voto, che dovrebbe restare segreto, sembra ormai condizionato dall’eco assordante dei like.
È l’algoritmo a decidere chi arriva al pubblico, a parità di budget pubblicitario. Prova a spiegarlo ai boomer, che puntano ancora sul volantinaggio al mercato del sabato. La verità è che oggi la campagna elettorale è un’operazione di marketing: non si vende un progetto politico, ma una faccia, un logo, un brand. L’essenziale è posizionarsi bene nel mercato dell’attenzione.
C’è poi un elemento culturale più profondo. La nuova – e spesso anche l’attuale – classe dirigente politica assomiglia più al mondo dello spettacolo che a quello della politica. Per formazione, linguaggio e mentalità è più vicina ai people-show televisivi e alle logiche del reality che ai libri, alle ideologie, al pensiero lungo. Le grandi visioni novecentesche, con la loro complessità, sono sepolte.
E così, a urne aperte, la domanda sembra più adatta a un reality che a un’elezione: chi vincerà la prova? Chi si aggiudicherà l’immunità? Chi finirà in nomination? E chi sarà eliminato? Decidetelo voi, da casa, con il televoto? Si scherza.
La tecnologia avanza ed è giusto così: i social sono strumenti straordinari, rapidi e potenti per veicolare informazioni. Ma ci hanno tolto un po’ la capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è fake, di andare oltre l’apparenza, di formarci un’opinione solida. Il mondo va avanti a velocità supersonica, mentre noi restiamo lì, ipnotizzati dallo schermo, a guardare.
E allora, almeno per un giorno, stacchiamoci dagli schermi. Andiamo a votare. Fermiamoci al bar a prendere un caffè, parliamo con un amico o un vicino, discutiamo senza urlare e senza riversarci addosso l’odio che corre online. Perché la politica, prima che nei feed, dovrebbe tornare a vivere nelle piazze e nelle comunità reali.