di Raffaele Vitali
FERMO – Evitare escalation, ma una risposta ai dazi che Trump ha di nuovo alzato nei confronti dell’Europa è necessario. Anche se, ci sarebbe ance un’altra strada per aiutare le aziende a restare competitive nell’export: ridurre le barriere interne al mercato unico.
"Secondo il Fondo monetario internazionale, il costo medio per vendere un bene tra gli Stati dell'Unione Europea equivale a una tariffa di circa il 45% rispetto al 15% stimato per il commercio interno negli Stati Uniti. Per non parlare dei servizi dove la tariffa media stimata arriva al 110%”. A dirlo è Giorgia Meloni durante il confronto con il presidente di Confindustria Orsini.
BARRIERE EUROPEE
La premier ha citato il Regional Economic Outlook 2024 dedicato all'Europa, pubblicato in autunno, usato anche da Mario Draghi nel suo rapporto. L'analisi condotta dagli economisti del Fondo rilevava che nel 2020 i costi commerciali all'interno dell'Europa equivalevano a un "considerevole dazio ad valorem del 44%" per il settore manifatturiero medio, rispetto al 15% tra gli Stati degli Stati Uniti, e "fino al 110% nel caso del settore dei servizi".
“Ci sono sostanziali barriere interne all'ingresso nel settore dei servizi in diversi Paesi". Nel mercato unico, come ricorda uno studio del Parlamento Europeo, persistono numerose barriere non tariffarie, che derivano da leggi, regolamenti tecnici e prassi e che creano ostacoli al commercio. Le barriere possono essere di carattere generale, come problemi di attuazione e applicazione del diritto dell'Ue a livello nazionale, soluzioni di e-government incomplete o divergenti o complessi requisiti Iva negli scambi intra-Ue.
Le barriere possono anche essere settoriali e riguardare solo mercati specifici di beni, servizi o commercio al dettaglio. Nello stesso rapporto dell'Fmi, gli esperti del Fondo raccomandavano tra l'altro di "eliminare tutte le barriere rimanenti a un mercato unico pienamente funzionante per beni e servizi".
Le misure chiave da attuare sono "l'apertura di settori protetti, come i servizi finanziari, le telecomunicazioni e l'elettricità, a un maggior numero di concorrenti stranieri; miglioramenti nelle infrastrutture di confine; e norme armonizzate per le imprese che operano in giurisdizioni diverse, come un 28esimo regime societario comune. Queste misure – conclude lo studio - ridurrebbero i costi commerciali e aumenterebbero i benefici di scala".
UE E USA
Nel mentre c’è la questione Usa. Pur rifuggendo alla logica della rappresaglia, Bruxelles ha pronte le contromisure al protezionismo targato Donald Trump che colpisce alluminio e acciaio europeo in primis. Due pacchetti di contro dazi, mirati e proporzionati, accompagnati da un messaggio inequivocabile: “Tutte le opzioni restano sul tavolo”.
IL PRIMO PACCHETTO
Le tasse europee, al 10% e al 25%, sono articolate in tre fasi per recuperare fino a 20,9 miliardi di euro. il primo step, che garantirebbe 3,9 miliardi, va a colpire Harley-Davidson, auto, yacht, Levi’s, mirtilli, burro d'arachidi, tabacco e tech leggero. La seconda fase, da 13,5 miliardi, punta su carne e pollame dal Midwest, legname del Sud, cereali, fast-food, moda e cosmetici. L'ultima tranche da 3,5 miliardi colpisce la soia della Louisiana e le mandorle.
IL SECONDO PACCHETTO
Si passa al bourbon del Kentucky, le aragoste del Maine, gli agrumi della Florida, microchip texani e tecnologie della Silicon Valley. Il valore potenziale delle esportazioni Usa colpite è di 95 miliardi di euro, la quota maggiore - oltre 88 miliardi - riguarda beni industriali come i macchinari (quasi 12 miliardi), l'aeronautica (10,5), e la componentistica per auto (10,3).
L'agroalimentare pesa per 6,4 miliardi. Ci sono poi le Big Tech con possibili stangate fino al 10% del fatturato globale annuo per chi viola in modo sistemico le regole su contenuti, concorrenza e trasparenza. (Foto winenews)