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Andrea e Giancarlo, i preti che non lasciano soli malati e infermieri: "Lacrime e preghiere in questi giorni di dolore e solitudine"

27 Marzo 2020

FERMO - “Il funerale è il momento del passaggio, senza smentire il già dato, ma allargandolo nella pienezza” sottolinea don Vinicio Albanesi (leggi) cercando di confortare chi perde il proprio caro e per colpa del Coronavirus non può accompagnarlo fino alla sepoltura.

Ma non c’è solo chi muore, ci sono le persone che vivono, che soffrono, che lottano. A loro pensano, ogni giorno, i sacerdoti. Al mondo della sanità si è rivolto l’arcivescovo Rocco Pennacchio, ai malati i cappellani dei due ospedali presenti nella diocesi di Fermo: don Giancarlo Tomassini, in servizio presso l’ospedale di Civitanova Marche, e don Andrea Patanè del Murri di Fermo. Figure in prima linea ricordate anche da Papa Francesco che li ha incoraggiati “nella loro missione tra gli ammalati e il personale sanitario”.

Un servizio in parte cambiato, ma solo nei modi, soprattutto con il personale sanitario: “Ci si saluta, ci si vede presenti entrambi, si cambiano due parole, un sorriso. Sanno che ci sono e che, se vogliono, mi possono chiamare. In questo momento non può il “pastore” andare in cerca delle pecore, non ci si può muovere neanche in ospedale. Però son presente e disponibile per una parola, un incontro, o semplicemente per alzare insieme gli occhi al cielo” spiega don Andrea Patanè.

La preghiera resta centrale: “Il personale chiede continuamente preghiere, ciò che prima non avveniva. Gli operatori sanitari hanno paura di non farcela, sono preoccupati per le loro famiglie, temono di essere contagiati” aggiunge don Giancarlo.

Il Coronavirus le persone le sta cambiando, soprattutto quando si passa dalle notizie al telegiornale all’esperienza personale, quando il malato ha invece un nome, un volto, è una persona cara o uno stimato collega. “L’aver visto infermieri suggerire alla moglie e ai bambini di trasferirsi dai nonni, per qualche tempo, consapevoli che ogni giorno, in ospedale, per loro c’è rischio di contagio. Ovvero scelgono di vivere il dolore della solitudine e della distanza, in una simile situazione di tensione e sovraccarico, per poter continuare a lavorare con fedeltà e per amare i propri cari, mettendoli al sicuro” proseguono i due cappellani.

Tornando alle parole di don Vinicio, don Andrea aggiunge: “Non posso entrare nei reparti: da una parte mi fa essere anche egoista perché sono quello che meno rischia, ma nello stesso tempo mi fa sentire anche un codardo, ho la sensazione che siano gli altri a combattere la battaglia e io invece resto a guardare. Di fatto ci è vietato di accedere alle corsie degli ospedali, di entrare nelle case di riposo e nelle Rsa. Rimane dunque la domanda: come poter stare vicino a chi soffre, accompagnare il malato, e allo stesso tempo rispettare le giuste limitazioni imposte dalle autorità per il bene di tutti?”.

Non è facile confrontarsi, trovare le parole giuste quando ti trovi di fronte chi ha lavorato 12 ore al giorno, come gli operatori dei reparti di terapia intensiva (LEGGI INTERVISTA ALLA PRIMARIA COLA): “Ho incontrato un medico che usciva dalla rianimazione, dopo 12 ore di lavoro, stanco e con gli occhi lucidi, mi ha detto: “don Giancarlo mi raccomando attento al contagio, qui la situazione è drammatica: prega. Non so come ne usciremo fuori da questa epidemia: mancano le risorse, manca il materiale. Ora vado a casa devo mangiare da solo, non posso abbracciare né i miei bambini né mia moglie!”. E poi si è messo a piangere”. Ma intanto il don c’era e almeno una preghiera quel medico a casa l’ha riportata.

@raffaelevitali

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